ARCH-pagine

venerdì 29 gennaio 2010

Spazi in barrique

L'architettura si concepisce con gli occhi chiusi: Le Corbusier lo ha ripetuto fino alla nausea. Intendendo anzitutto le cavità.
E che altro, da uno dei più straordinari orchestratori di spazi mai visti? Già, ma come immaginarli? Qui si rischia un flash-flood. E pare profilarsi un'animata discussione:
Federico :- Certo che a pensarci … ma quante dimensioni avrà mai, lo spazio architettonico? 3, 4, 5, 6000, 189.723.584 ?-
Pietro, laconico:- Tre, è evidente: profondità, altezza, larghezza. Che altro?-
Ma Federico, perplesso :- Uhm, se ci muoviamo intorno e dentro un edificio, saranno almeno quattro, no? -
Dani sentenzia decisa :- Nemmeno per sogno! Conviviamo o ci isoliamo, interagiamo, formiamo gruppi, discutiamo, ci rintaniamo a far l'amore, partecipiamo a feste, spettacoli, manifestazioni, riti religiosi, partite di calcio e basket, girovaghiamo tra la folla per strade e piazze, osserviamo bancarelle, vetrine, persone. Nemmeno quattro bastano! Col sociale sono cinque, ammesso che il sociale sia riconducibile a una sola dimensione-
Pausa di silenzio, sommessamente rotta da Mauro, il taciturno della comitiva:- E già. E come la mettiamo con gli stati d'animo? Neghereste che ci sono spazi che incutono timore e altri che irrompono con gioia nella luce, nella natura, nel mondo circostante e trasmettono gioia a noi stessi? Che ce n'è di raccolti, che inducono in meditazione, e altri che schiudono improvvisi e vasti orizzonti? Che alcuni paiono soggiogarci, intimorirci, serrarci e altri sembrano lì solo per metterci a nostro agio?-
I(nte)rrompe Miriam, la colta :- Che discorsi! Ci mancava solo il Sovereign della banalità; siamo a posto! Perché tanti giri di parole, Mauro, quando stai solo mettendo in gioco l'innegabile dimensione psicologica della fruizione spaziale? Psi-co-lo-gi-ca. E allora, siamo a sei dimensioni. Ma poi, di che parliamo? Di cose arcinote: la tua è solo Einfuhlung di terza mano, caro Mauro. Nella migliore delle ipotesi, Gestalt Theorie in versione originale, cioè attempata, e in edizione Bignami. Superata dacché si è capito che non c'è biunivocità tra stimolo e percezione, o sensazione che dir si voglia, e che non sono mutuamente riducibili. E sarebbe ora di smetterla, una buona volta, e di capovolgere tutta una serie di equivoci. A partire da quallo lacanian-levy-strauss-para-strutturalista che ci vorrebbe alle prese con significanti in perenne esubero rispetto a significati condannati a braccarli come segugi a corto di fiato. E se fosse il contrario? Se, in linea col fatto che la sensazione o percezione è ben più ricca, complessa e problematica dello stimolo, fosse invece la serie dei significati (le percezioni o sensazioni) in esubero rispetto a quella più circoscritta dei significanti? Così si spiegherebbe come mai le stesse forme riescano a generare letture tanto differenti, nei tempi della storia. Comunque, se proprio ci tenete, è dal lontano 1968, quando uscì “La dimensione nascosta” di Edward Hall (che certo manco avrete sfogliato per sbaglio in libreria, presi come sempre a disperdervi nei mille casi possibili di ogni situazione), dicevo, è dal 1968 che sappiamo che esistono uno spazio acustico, uno olfattivo, uno tattile e termico, oltre a uno visivo che li sintetizza.-
-Si- sbotta caustico Pietro - e uno gustativo: quello da noi appena sperimentato, con i bei risultati che abbiamo sotto gli occhi. O meglio, nelle viscere-
-Perché no? Anche gustativo, se ci rifletti -incalza Miriam imperterrita- e comunque, anche senza quest'ultimo, siamo a sei più quattro: e fanno dieci! Senza contare gli spazi antropologici, etnici, culturali, inglesi, giapponesi, arabi, tedeschi. E senza contare quelli relativi alle distanze o quelli preordinati, informali, semideterminati-
No, non è una metafora, se non di striscio. E' il clima di una delle discussioni serali nelle quali ci si trovava coinvolti dopo una cena quando:
1. alcuni architetti osavano ancora sentirsi abbastanza matti da sperare di contribuire a migliorare il mondo (pochi, sfortunatamente);
2. la maggior parte dei vini non ti saltava in faccia anteponendo a tutto il proprio blasone omologante di barrique, come succede oggi (non a tutti, fortunatamente).
E non è un Amarcord nostalgico. Ci si domanda “come si immagina un edificio?” o, di solito, ci si riduce ai modi della sua rappresentazione? Alla prospettiva lineare del Rinascimento piuttosto che ai computer, ai CAAD, ai rendering, ai giochini accattivanti con Photoshop? Si pensa al suo reale utilizzo e alla sua complessa fruizione da parte di utenti concreti, in carne ed ossa, o si parte dal risultato e dall'effetto che farà vederlo pubblicato su una rivista in carta patinata o sul Web? Un'immagine virtuale bella da rimirare in 2d quanto deludente da vivere e fruire realmente?
Ah, saperlo, saperlo. Ma il dubbio c'è. E sembra più che fondato.
G.C.

1 commento:

Anonimo ha detto...

"[.....] Il nostro cervello è formato da due emisferi, l’emisfero sinistro e l’emisfero destro, congiunti da una spessa fascia di fibre nervose detta corpo calloso il quale ha funzioni connettive e coordinative tra i due . L’emisfero sinistro è preposto all’organizzazione di capacità di calcolo, scrittura e linguaggio; è caratterizzato da linearità, sequenzialità, analiticità, dall’attenzione al quantitativo. A livello sensoriale utilizza lo spazio visivo per mezzo del quale riesce a trattare opportunamente le informazioni diacroniche.
L’emisfero destro invece organizza funzioni spaziali e il senso della pluridimensionalità; tratta il pensiero artistico/simbolico, simultaneo, sintetico e qualitativo. A livello sensoriale utilizza lo spazio acustico, il quale meglio soddisfa le sue esigenze sincroniche.
Lo spazio acustico è multisensoriale perché c’è la compresenza di tutti i sensi, lo spazio visivo invece nasce dalla predilezione di un unico senso a discapito degli altri: la vista. Questo distacco è tipico della cultura occidentale e trova le sue radici nella nascita del pensiero filosofico greco.
La cultura orientale invece è caratterizzata dall’utilizzazione dello spazio acustico [.......]" (Marshall MCLuhan, Bruce R. Powers “The Global Village”, 1988)

E se lo spazio fosse cerebrale e basta?

Vilma