Una riforma? Per Zevi non bastava più: occorreva una vera rivoluzione. A che punto siamo? Ai pannicelli caldi. Di seguito, l'intervista che Zevi rilasciò nel 1979 al settimanale «L'Espresso», con le sue diagnosi e precise proposte. Quando troverà un po' di coraggio, il nostro paese?
ABBANDONO L'UNIVERSITA' PER OTTIMISMO
intervista a Bruno Zevi apparsa su «l'Espresso» il 26 Agosto 1979
D. - La fondamentale obiezione sollevata dai tuoi colleghi è questa: se tutti abbandonassero l'università, cosa succederebbe?
R.- Ipotesi astratta. Questo è un paese in cui nessuno si dimette, e tutti restano arroccati al proprio «centro di potere», per fasullo che sia. Quando il fascismo obbligò i professori universitari a giurare fedeltà alla dittatura, solo 11 (undici) cattedratici, nell'intero corpo accademico, rifiutarono. Del resto, non ho lanciato un appello ai colleghi affinché seguano il mio esempio. Ho soltanto spiegato perché, posto di fronte alla possibilità di un pensionamento anticipato, mi sono dovuto interrogare: cosa è più giusto? Dove posso essere più utile per la cultura, e per la stessa università? Dentro o fuori?
D. - In questo modo, però, s'indebolisce il fronte universitario. Molti si domandano: se uomini come Zevi «disertano», sarà mai possibile rinnovare l'università?
R. - Controdomanda: cosa siamo riusciti a fare, negli ultimi vent'anni, per opporci allo sfascio? Abbiamo protestato verbalmente, reiterando che l'università è inagibile, che la ricerca scientifica è ridotta quasi a zero, che la didattica è paralizzata da un numero inflazionato di studenti, dalla carenza di spazi e di attrezzature. Ma ormai i politici sanno che non succederà niente, perché i professori riprenderanno a fare il loro «dovere» burocratico, terrorizzati dall'idea di perdere il posto. Non mi atteggio a eroe, ma i pochissimi che pagano di persona, con tremenda angoscia, non possono essere accusati di «diserzione». Non facciano gli eroi i colleghi che restano inerti sulla barca che affonda e, continuando a subirla, legittimando una situazione disastrosa.
D. - Tuttavia, stando fuori dell'università, come si può modificarla?
R. - Anzitutto, un atto individuale di coraggio provoca un putiferio, più delle mille dichiarazioni firmate in vent'anni. Secondariamente, poiché dall'interno non si scuote la passività dei politici, occorre rafforzare la libera cultura, oggi languente in quanto tutti sono professori. Bisogna combattere all'interno e all'esterno. Al rettore Antonio Ruberti, ai colleghi, alle delegazioni di assistenti, borsisti e studenti che mi hanno scongiurato, con manifestazioni di affetto commoventi, di ritirare le dimissioni, ho detto semplicemente: non fuggo e non abdico, resto a Roma a vostra disposizione, pronto a svolgere lezioni, seminari e ricerche, partecipando a iniziative rischiose, a tempo pieno e a titolo gratuito. Ma non voglio più essere corresponsabile dell'attuale processo di burocratizzazione sindacalizzata e del conseguente deterioramento culturale. Se c'è spazio per la libera cultura nell'università italiana, come in quelle dei paesi civili, sarò con voi fino ai 75 anni e oltre. Se invece la nostra università diventa sempre più una corporazione chiusa di salariati e un gigantesco parcheggio di giovani disoccupati, non contate su di me. Il ministro Valitutti ha riconosciuto che «se oggi Benedetto Croce chiedesse un incarico di filosofia, avrebbe come concorrente un assistente di ruolo», e ha giudicato questo stato di cose «un'assurdità». Però, se tale andazzo continua, è meglio agire come fece Croce durante il fascismo, fuori dell'università, per la cultura indipendente.
D. - Asor Rosa e vari docenti comunisti sospettano che tu nutra una certa nostalgia per la vecchia università élitaria, mentre oggi si devono affrontare, bene o male, i problemi di un'università di massa.
R. - Sciocchezze autodifensive. Cosa significa «università di massa»? Tutto, meno che massificazione dell'università d'élite. Oggi la nostra università non è affatto di massa. Sopravvive per la mera circostanza che la maggior parte degli studenti non frequenta la scuola; del resto, non ci sono aule abbastanza capienti per contenerli, e meno ancora tavoli da disegno e laboratori. Così s'incentiva l'incultura di massa e si istituzionalizza l'analfabetismo, il «laureificio» generalizzato.
D. - Ma, se tu credi nell'università di massa, come ritieni che si dovrebbe organizzare?
R. - In due modi, simultanei: accrescendo il numero delle facoltà, come ha fatto la Francia con le «unità pedagogiche», e utilizzando i mass-media, l'insegnamento radio-televisivo, come ha sperimentato l'Inghilterra con la Open University. Prendiamo il caso della Facoltà di Architettura di Roma. Ha 12 mila studenti, quando una scuola efficiente non può ospitarne più di mille (la media, all'estero, è di 500). Allora, bisogna creare nella regione laziale 12 facoltà di architettura, che operino a contatto con le diverse realtà socio-territoriali (centro storico, periferia, borgate, campagna, nuclei minori), affinché ciascuna trovi una specifica identità scientifica e didattica. Se, invece di 12 facoltà autonome, moltiplichiamo per 12 la stessa facoltà, nella stessa sede, con le stesse attrezzature, abbiamo l'attuale pachiderma, faraonico e incontrollabile, un «esamificio» abbrutente, come dice Paolo Alatri. Potrà soddisfare i professori-burocrati rimbecilliti, non uomini non ancora ridotti alla beota acquiescenza. Un'università di massa non si ottiene sovraffollando quella d'élite, ma con strutture e strumenti nuovi.
D. - Giorgio Bocca ha osservato che ci sono facoltà buone e cattive, non si può fare di ogni erba un fascio. Forse il caso della facoltà di Architettura di Roma è particolarmente grave ...
R. - Neppure per sogno! Anzi, la facoltà di Architettura è tra le migliori, assai più parca nell'elargire i 30 agli esami e i 110 con lode alle lauree. Molti docenti vi si dedicano quasi a tempo pieno, e ci sono studenti bravissimi, entusiasti del loro mestiere. Non cerchiamo alibi, a danno della facoltà di Architettura. È il sistema che non può funzionare.
D. - C è chi sostiene, però, che adesso si nota una ripresa: gli studenti sono più seri e l'università produce un po' più di cultura.
R. - La ripresa, indubbia, riguarda una minoranza, un'élite; per la maggior parte, gli studenti, nelle condizioni attuali, non sono in grado di prepararsi, e si laureano in stato di analfabetismo. Quanto alla produzione culturale, si può svolgere, benché limitatamente, nel chiuso degli istituti baronali, e perciò non serve agli allievi, né ai giovani docenti. È evidente: un «esamificio» si basa su standard culturali minimi, infimi, quelli che si possono pretendere da studenti cui non è consentito di frequentare le lezioni e i seminari, né di usufruire di laboratori e cantieri sperimentali.
D. - Le dimissioni dei professori migliori non stimolano la formazione di università private, a danno di quelle statali?
R. - Frusto argomento per giustificare il letargo ... lo ho lottato, e intendo continuare a lottare dall'esterno, per l'università pubblica. Ma, qualora si formasse un'università indipendente, laica, di sinistra, ne sarei lietissimo, perché spronerebbe quella statale. Certo, se i professori di sinistra sono così pavidi, accademici, ligi all' «ordine istituzionale» e alla «disciplina burocratico-corporativo-sindacale», c'è poco da sperare. Francamente, se l'università italiana va a rovescio, la colpa non è solo della destra, ma anche nostra: dilaga infatti una «reazione di sinistra» nell'arte, nella cultura, nell'università. Avete visto come gli amici «sinistri» si difendono, quasi che le dimissioni di un professore mettessero in pericolo le loro cattedre?
D. - I conservatori però, tripudiano: Zevi - dicono - ha sostenuto la contestazione del '68 e la liberalizzazione dell'accesso all'università, ed eccone le conseguenze. E' un boomerang ...
R. - La mia posizione è ben nota. Sono stato a fianco dei contestatori nelle lotte volte a democratizzare l'università, a renderla politicamente agibile, a battere lo strapotere baronale. Ma ho sempre rifiutato l'incultura, i 27 o i 30 regalati, gli esami e le lauree di gruppo, la demagogia degli studenti e, tanto più, quella di troppi professori. Il '68 ha costituito un grande evento, ma in Italia si è riflesso negativamente sulla cultura universitaria.
D. - In conclusione, non ti sei dimesso perché eri «scoraggiato», «nauseato», «stanco», «pessimista», come hanno scritto i giornali?
R. - Idiozie a catena: ti intervistano e poi scrivono il contrario di quel che dici. L'università italiana è un paradiso per i professori: una splendida gabbia materna che ti protegge senza reprimerti, perché è tutta sfasciata e quindi consente di fare i comodi propri: impegna o disimpegna, a piacere. lo poi ho fondato e dirigo un istituto assai attivo, quello di critica operativa dell'architettura; e svolgo un corso facoltativo, che può mantenere un alto livello culturale. Altro che disgustato! Magari lo fossi, non soffrirei tanto nel lasciare l'università! Ma considero quest'atto un dovere civile, in positivo, una denuncia incisiva, un momento necessario della battaglia condotta fin qui. Non prevedevo che le mie dimissioni avessero una risonanza così vasta, e neppure lo desideravo. Ma ne sono contento, perché hanno riportato alla ribalta il tema universitario. Ormai non si tratta più di «riformare» l'università, ma di rivoluzionarla, cioè di reinventarne le strutture. A tal fine, occorrono iniziative temerarie, anche illegali, che presuppongono una stretta alleanza tra universitari e intellettuali liberi. Il mio è un atto, lacerante, di ottimismo.
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